Pubblichiamo un editoriale sulle conseguenze del lavoro in remoto, a cura della Dott.ssa Maria Teresa Ruggiero, Psicologa e Psicoterapeuta

Il lavoro è oggi un costruttore di senso del sé profondo. E questo emerge in modo chiaro e netto anche nella stanza del terapeuta. I pazienti, sia in percorso clinico che in sedute di primo supporto, che in colloqui di ascolto aziendale, portano il lavoro come dimensione costitutiva del sé. Il lavoro è fattore determinante dell’esperienza autobiografica ed è condizione pervasiva dell’intera sfera di vita. In questo senso, siamo di fronte a una sorta di inversione: un tempo ci si preoccupava solo del contrario, che il dipendente portasse dentro al lavoro i suoi vissuti privati, cercando di schermare le due dimensioni.

In questo senso è davvero corretto parlare oggi di engagement, perché nel suo significato più radicale indica esattamente il patto fiduciario, il progetto comune, e, da ultimo, il contratto psicologico che integra e completa quello normativo, proprio come nei legami esistenziali, affettivi, di coppia,  familiari. Un rapporto che prevede il passaggio da un tu-io a un noi, secondo alcuni principi fondativi:  quello di simmetria, quello della proiezione a lungo termine, quello della biunivocità e delle aspettative bilanciate, quello della reciprocità.

Ma se il lavoro è un patto fiduciario, il tradimento della fiducia è un trauma. Nella maggior parte dei casi, un micro trauma da contestualizzare alla relazione tradita. Ma il rischio dei piccoli traumi, a differenza dei grandi, più visibili e improrogabili, è quello di rimanere latenti e finire per sedimentarsi in una stratificazione emotiva. La mancanza di elaborazione li rende parte del vissuto profondo. La disistima, il senso di marginalità e una leadership assente, la povertà di senso e l’aridità del contesto sociale tracciano nel tempo un senso di alienazione e solitudine. Il Covid-19 è stato un amplificatore, una cartina di tornasole che ha messo a dura prova la tenuta di questo legame esistenziale. Laddove l’istituzione impresa e la comunità sociale erano saldi e ad alto tasso di fiducia, il lockdown ha avuto ammortizzatori forti e una capacità di assorbimento e contenimento, e la persona ha potuto contare su una sorta di elaborazione collettiva della paura e dell’angoscia.

A conferma di questo ruolo costitutivo è il fatto chi ha dovuto presenziare in azienda e continuare ad operare in presenza (nella filiera primaria) ha mantenuto vivi i codici sociali, emotivi e culturali dell’appartenza che gli stanno permettendo di affrontare meglio l’onda traumatica. Tra i forzati dello smart working, solo quelli con legami forti e di identità profonda hanno potuto mantenere viva la stessa condizione emotiva di contenimento, tipica delle comunità a forte legame intersoggettivo.

L’esperienza Covid è anche dunque una grande occasione per mettere alla prova la nostra  responsabilità nella costruzione civile di legami sociali destinati a durare nel tempo.

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