Nel caso del cambiamento del posto di lavoro a un dipendente, è opportuno considerare attentamente le norme vigenti e le possibili conseguenze di un trasferimento illegittimo.

Quando si accetta di stipulare un rapporto di lavoro subordinato, anche a tempo indeterminato (cioè nella sua forma apparentemente più solida, stabile e tutelante per la parte più debole del rapporto, per l’appunto il lavoratore), bisogna ricordare che, ex art. 2094 del Codice civile, la prestazione lavorativa che ne forma oggetto va svolta “alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro” e che il connesso dovere di conformarsi alle indicazioni operative datoriali ricomprende non solo il ‘come’, ma anche il ‘dove’ tale prestazione vada resa, non potendo confidare, quindi, su una sorta di ‘immutabilità logistica’ del luogo di lavoro definito all’inizio del rapporto.

Va infatti considerata l’assenza di precise indicazioni nella Costituzione che impongano la condivisione con il lavoratore del luogo in cui deve prestare la propria opera e, allo stesso modo, l’impossibilità di desumere automaticamente – da altre disposizioni di carattere generale ivi contenute – la sussistenza in capo al medesimo di un ‘diritto’ a lavorare costantemente solo ove egli dovesse gradire di farlo.

A prescindere, invece, dall’articolo del Codice civile indicato, la disciplina codicistica presenta, nel suo sviluppo logico generale, una successione di norme dalle quali si può automaticamente desumere, in linea di principio generale, l’assunto esattamente opposto.

Infatti, l’art. 2082 definisce come imprenditore colui che “esercita professionalmente un’attività economica organizzata” (e quest’ultimo aggettivo è da intendersi in tutti i suoi aspetti, proprio dall’imprenditore medesimo), mentre il successivo art. 2086, ora specificamente titolato Gestione dell’impresa – a seguito dell’art. 375, comma 1 del D.lgs 14/2019 – sottolinea senza alcun dubbio che, per quanto molto tempo sia passato dal 1942, l’imprenditore “è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”, mantenendo quindi una sorta di logica ‘militaresca’, in base alla quale il lavoratore è, sotto alcuni profili, sostanzialmente un ‘soldato’ che deve obbedire al ‘generale’ – o ai suoi collaboratori comunque sovraordinati – in primis per quanto riguarda un aspetto fondamentale delle prestazioni lavorative, richiamata dall’art. 2104: la diligenza.

È pertanto nel succitato art. 2086 che può rinvenirsi la fonte primaria del potere datoriale, come capo dell’impresa, di intervenire sul luogo della prestazione anche modificando definitivamente la sede lavorativa, che differenzia l’istituto giuridico del trasferimento da quello della trasferta (caratterizzata invece dall’intrinseca temporaneità dello spostamento).

Ancora diversa è l’ipotesi del distacco, nella quale il mutamento (che anche in questo caso, pur potendo notevolmente prolungarsi, non dev’essere definitivo) riguarda sì il luogo di lavoro, ma solo come conseguenza accessoria di un altro elemento primario: la variazione temporanea del soggetto, effettivamente gestore del potere di indirizzo e controllo della prestazione del dipendente, cioè del datore di lavoro ‘sostanziale’, mentre quello ‘formale’ rimane sempre quello stipulante il contratto di lavoro.

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